Debutto: 21 maggio 2017 – Reggionarra
Teatro Valli – Reggio Emilia, Piazza Martiri 7 luglio
ideazione e regia di Monica Morini e Bernardino Bonzani
drammaturgia sonora Antonella Talamonti
Nel Teatro i palchi si fanno culla di fiabe incantate.
Per ogni palco un narratore tesse parole venute da lontano a una manciata di spettatori.
Nell’alveare le voci di tiritere e filastrocche si intrecciano alle storie, incandescenze di memoria e
immaginazione.
Il teatro si rovescia, diventa luogo misterioso da esplorare.
I doni delle storie hanno scintille di fuoco, elemento magico che lega questi sentieri di fiaba.
La recensione di Tommaso Chimenti
L’ALVEARE DELLE STORIE: IMPOLLINARE IL MONDO DI RACCONTI ANTICHI E SEMPRE NUOVI
“L’Alveare delle Storie”, ideato dai tipi del Teatro dell’Orsa (gli instancabili Monica Morini e Bernardino Bonzani), costruttori e inventori di “Reggionarra” (per dieci giorni Reggio Emilia diventa la città per eccellenza dell’affabulazione e dei canta e cuntastorie) è un gioco semplice, un impianto lineare, un impatto artistico che miscela un grande teatro all’italiana (in questo caso il Valli) infarcendolo di piccoli gruppi che si annidano, scavano e scovano, sgattaiolano alla ricerca, palchetto dopo palchetto, dei loro narratori ai quali sono stati assegnati. Come carbonari. Un format che potrebbe essere ripreso (il successo è assicurato) in ogni città o comune; entrare nella pancia di un teatro vuoto, nella sua penombra pensosa mentre, si crede, che non sia in scena e in atto uno spettacolo, o almeno non nella versione classica, nella divisione platea-palcoscenico. “L’uomo non è destinato a far parte di un gregge come un animale domestico, ma di un alveare come le api” (Emmanuel Kant).
Si entra in un mondo altro, in una dimensione parallela dove i suoni sono ovattati e le parole hanno un’anima, un sentire, anche un odore e un profumo, una cantilena e una musicalità, una nenia e un’armonia di fondo ci guidano. Trentacinque angeli bianchi, colombi o fantasmi, spiriti o accompagnatori incorporei aleggiano tra gli stucchi dorati e i velluti rossi, i lampadari accesi con la luce bassa, i chiaroscuri che producono ombre magiche o terribilmente paurose. Delle domande vengono gettate nell’agorà; sono interrogativi esistenziali che vanno a scardinare la quarta parete dell’attore e del pubblico. Qui stiamo a contatto di gomiti e ginocchia. Te le dicono piano, passando, senza soffermarsi, quasi fosse una casualità, una fortuita coincidenza (e in questo il play somiglia alle architetture sceniche di Enrique Vargas e del suo Teatros de los Sentidos):
“Quante scarpe hai consumato per arrivare fin qua?”, sussurrano lasciando le porte della percezione aperte, quasi spalancate, “Ti fidi della tua storia?”, mormorano ponendoti davanti ad un bilancio, ad un bivio interiore. Siamo nelle mani di tanti Virgilio candidi, di altrettanti Cicerone immacolati e lattei. Ci affidiamo. Le voci di questi guerrieri di pace sono soffuse, leggere, si appoggiano fresche. Potrebbero essere vestali dai passi teneri e soffici come pazienti manicomiali nei loro canti a formare una patina densa, una cappa che spalma e plasma, attorniati dalle loro campanelle come imbonitori o domatori di serpenti, pifferai magici. “Sono una piccola ape furibonda” (Alda Merini).
Una ventina di palchetti sono illuminati al chiarore di un faro fioco, quasi lampara in mezzo al mare. Ovviamente i pesci, con la bocca aperta, siamo noi. Come su una zattera in mezzo a questo mare placido, navighiamo a vista. Se gettiamo l’occhio oltre il nostro porto sicuro, affacciandoci vediamo altre luci fiammeggiare da altri palchi, altre voci che raccontano altre fiabe millenarie, altre api che tessono storie, altre api che hanno assolutamente bisogno di quelle stesse parole che parlano di principesse e incantesimi, di Mito e profezie. È un cicaleggio continuo (la drammaturgia sonora è a cura di Antonella Talamonti), un chiacchiericcio come tappeto sonoro, a volte una parola rimbomba, si sentono rime in questo formicaio. Siamo Hansel e Gretel dentro la casa della strega, siamo Jona dentro la balena, siamo Pinocchio dentro il pescecane: felicemente indifesi. Ogni palco è una sospensione temporale, una parentesi dove aedi cerei e spirituali snocciolano storie come fossero piselli sgranati, le sbucciano come fave fresche, le pelano come patate spugnose. Queste voci calde e corroboranti ti entrano dentro, sbattono nelle orecchie, ciottolano sotto lo sterno. Suoni ed emozioni. Storie di vita e di morte. Gentilezza e memoria. Saggezza e pazienza, rispetto e attesa. Scintillanti come piccoli fuochi in loop. Tra le ombre si racconta di sogni e di forza di volontà. Siamo dentro un grande carillon tra questi gironi celestiali, ci aggiriamo tra questi budelli, in questo intestino che ci dona intimità e profondità. Siamo talpe a scavare fino al cuore della terra, fin dentro le viscere del discorso immateriale e immortale che ha intrapreso l’Uomo fin dai suoi primi bagliori e barlumi. “Vola come una farfalla, pungi come un’ape” (Muhammad Alì).
Ne usciamo, sputati come l’omonimo protagonista di “Essere John Malkovich”, con alcuni grandi e semplici insegnamenti: quello di guardare con estrema curiosità dietro le cose e le persone, il non fermarsi alla prima occhiata o alla prima impressione, il cercare strade non battute, l’aspirare ad altri punti di vista. Dai palchetti muoviamo la nostra transumanza al palco in un serpeggiare; adesso guardiamo l’alveare illuminato con altre storie che prendono possesso, che scivolano dalle bocche, che s’intrufolano in altre orecchie. Sentiamo stralci delle favole che abbiamo sentito. In questo ribaltamento, nel vedere nel buio quelli che eravamo e che siamo stati fino a pochi minuti prima, ci viene in soccorso un’altalena che pende vuota, la fanciullezza, la spensieratezza, l’infanzia quando anche i sogni sono reali, ma anche lo slancio e il dondolarsi, il guardarsi ora i piedi e la terra, il vedere adesso il cielo sopra di noi. L’altalena è un ponte, un arco per fare un salto da ciò che eravamo a ciò che vogliamo essere. L’“Alveare” è il bisbiglio della placenta della mamma, è la poesia di una carezza di mani familiari, è il fiore che nasce in uno sguardo profondo. Ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne sogni la tua filosofia. Parole sante. Parole come miele. “C’è un’ape che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e se ne va…Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa” (Trilussa, “Felicità”).
Tommaso Chimenti 21/05/2017
La recensione di Marco Fratoddi
http://www.liminateatri.it/teatroallarovescia.htm
LiminaTeatri.it
Il teatro alla rovescia
di Marco Fratoddi
Rovesciare il teatro. O meglio, capovolgerne la gerarchia. È un’intuizione semplice, risolutiva e per di più inedita quella che sostiene L’alveare delle storie : un racconto a più voci, ispirato al patrimonio delle fiabe tradizionali che il Teatro dell’Orsa ha presentato durante la recente edizione del festival Reggionarra. La particolarità di questa creazione però non risiede tanto nel repertorio di storie su cui la compagnia emiliana ha scelto di lavorare insieme a 35 giovani interpreti, provenienti da tutta Italia e coinvolti durante i mesi scorsi in un’approfondita esperienza di formazione. Perché ciò che davvero si celebra in questo gigantesco carillon di parole, scampanellii e anime narranti è il luogo stesso in cui l’evento prende forma, la bellezza di un modello architettonico che rappresenta un sistema di organizzazione sociale (rubiamo il concetto a Fabrizio Cruciani che a questi temi aveva dedicato molti suoi studi) prima che uno spazio per lo spettacolo. Tutto del resto comincia nel foyer del teatro Romolo Valli di Reggio Emilia, tipica struttura all’italiana con tanto di ordini, fregi dorati e velluti rossi, quando il pubblico viene suddiviso ritualmente in piccoli gruppi e accompagnato dai custodi di questo microcosmo, le prime voci che conosceremo, all’interno del proprio palchetto. È l’inizio di una partitura alla quale ciascun narratore, con il proprio sciame di pubblico, contribuisce nell’intimità della propria cella, dove normalmente ci si accomoda per osservare quanto accade sul palcoscenico. Invece la storia prende forma lì dentro, insieme a chi ce la racconta: ascoltiamo da una prima narratrice la fiaba di un principe che riemerge dall’aldilà grazie all’amore di una fanciulla disinteressata e tutt’intorno il ronzio, le grida, il rintocco dei cimbali che provengono dal resto dell’alveare, dalle molteplici alcove in cui altri narratori elargiscono il nettare di un immaginario ancestrale. È una situazione ricca di suggestioni, sensorialmente anomala quella in cui ci ritroviamo, fra biglietti che scivolano nelle mani e frasi sibilline sussurrate all’orecchio. Qualcosa di simile a un’occupazione creativa che Monica Morini e Bernardino Bonzani concepiscono nel segno di Enrique Vargas, il regista catalano (per adozione) che investe proprio sull’immersività, sull’esplorazione sensoriale dei luoghi. Ma c’è anche un evidente retaggio dal teatro per ragazzi nell’attenzione verso il singolo spettatore, un approccio ludico che ci permetterà di attraversare l’intero apparato circolatorio del teatro come fossimo le vitamine o i globuli rossi di un vivente più grande. Raggiungiamo così in un secondo palchetto, dove si manifesta un’altra storia fra quelle che casualmente toccano ai gruppi: per quanto ci riguarda, sarà quella di un naufrago che riceve dal re che lo accoglie una grande ricchezza in cambio della sua generosa abilità da calzolaio, a conferma del messaggio edificante che tiene evidentemente insieme questi racconti paralleli. Alla fine, nel terzo tempo, ci ritroveremo tutti sul palco a contemplare l’alveare, a vivere da spettatori l’esperienza che normalmente tocca agli attori mentre loro, gli artefici della finzione, continuano a ronzare grazie alla guida sapiente di Antonella Talamonti, curatrice della drammaturgia sonora, l’ape regina di questa comunità.
Ne usciamo emotivamente coinvolti, insieme ad un pubblico che stavolta può variare davvero da zero a novantanove anni, con gli interrogativi che ci lascia un’esperienza dal sapore esistenziale. Uno su tutti: e se invece che in un teatro all’italiana, meraviglia del nostro passato, un allestimento del genere si organizzasse in un alveare d’altro genere, per esempio in un condominio di periferia come quello romano di Corviale, dove convivono seimila persone nello spazio di un chilometro? Anche quello sarebbe un sistema da leggere in maniera diversa.