Questo è il mio nome

 

 

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     Con i richiedenti asilo e rifugiati ospitati a Reggio Emilia

Ogochukwu Aninye, Djibril Cheickna Dembélé, Ousmane Coulibaly, Ezekiel Ebhodaghe, Lamin Singhateh

Coordinamento Marco Aicardi
Ideazione e regia Monica Morini e Bernardino Bonzani
Collaborazione alla drammaturgia Annamaria Gozzi
Ideazione luci Lucia Manghi
Tecnica Nicolò Sala 

Lo spettacolo Questo è il mio nome del Teatro dell’Orsa riceve il Premio del Pubblico al 15° Festival di Resistenza, Premio Museo Cervi – Teatro per la Memoria: l’importante riconoscimento arriva per il lavoro allestito con un gruppo di richiedenti asilo e rifugiati provenienti da Senegal, Costa d’Avorio, Mali, Nigeria e Gambia.

Lo spettacolo che da molti mesi in tour in tutta Italia e ha incontrato più di 5000 spettatori tra cui 2800 ragazzi, lo scorso 11 luglio è andato in scena, di fronte ad un pubblico attento e commosso composto da alcune centinaia di persone, al Museo Cervi di Gattatico (RE).

Questo è il mio nome, è stato selezionato con altri sei spettacoli fra ben centoventisette candidature arrivate da tutta Italia.

Siamo felici perché questo riconoscimento al Festival di Resistenza colma di gioia gli attori africani che, in scena, si sono impegnati in questo lavoro per un anno e mezzo. E poi perché giunge a coronamento di un percorso di ricerca teatrale sulla memoria e sul presente iniziato tredici anni fa con lo spettacolo Cuori di terra – Memoria per i sette fratelli Cervi, allora vincitore del Premio Scenario per Ustica.

Questo spettacolo è frutto di una fatica e di un sacrificio pieno di senso. “Sacrum facere”, dicevano i latini: fare qualcosa di sacro. Sacro è l’incontro con l’altro, sacro è il riconoscimento della sua dignità, sacro è il teatro quando unisce le persone in un tempo e in uno spazio in cui il mondo cambia. Non smettiamo di guardare il presente dritto negli occhi senza dimenticare da dove veniamo.

Vogliamo ringraziare tutti quelli che hanno collaborato e lasciato il proprio segno nel lavoro: gli attori in scena al Festival, Ogochukwu Aninye, Djibril Cheickna Dembélé, Ousmane Coulibaly, Ezekiel Ebhodaghe, Lamin Singhateh.
Annamaria Gozzi, che insieme a noi ha curato la drammaturgia dello spettacolo; Lucia Manghi e Andrea Alfieri, responsabili di luci e tecnica, il Comune di Reggio Emilia, Il sindaco Luca Vecchi, che ha creduto in questo lavoro già al suo debutto.
Marco Aicardi e Luigi Codeluppi della Cooperativa Dimora d’Abramo, nostro partner nel progetto ; Abdoulaye Conde, mediatore culturale e attore in scena; Sabrina Gualerzi, Monica Di Bari e Ilaria Nasciuti, operatrici del Progetto Sprar; Roberta Balestrucci, Antonella Simula e gli operatori del Festival Conta e Cammina che ci ha ospitato in Sardegna. Mouaz Keita Mandjou, Baye Niase e Mamoudou Camara, che insieme a noi hanno condiviso un tratto di strada. Infine Gabriele Vacis, direttore artistico della Fondazione I Teatri, che ci ha incoraggiato e proposto nella sua programmazione e la Camera del Lavoro di Reggio Emilia, che ha voluto sostenere una parte del progetto.

 

-DESCRIZIONE

“Odisseo sognava di tornare a casa dopo una guerra che l’aveva condotto lontano.
Invece io ho voluto lasciare il mio paese devastato dalla guerra.
Come Odisseo  durante il viaggio anch’io ho incontrato migliaia di ostacoli.
Ma lui tornava, io vado.
A me l’andata, a lui il ritorno.”

Ulisse da Bagdad – E.E. Schmitt

Una finestra aperta su storie invisibili, un orecchio rovesciato su un canto che attraversa i mari e i deserti, uno spazio e un tempo per lasciare un segno. Da Senegal, Costa d’Avorio, Guinea, Mali, Nigeria, Gambia, sul palco si srotolano le orme di Odissei in viaggio. Storie incise nella polvere e nella carne,  scintille di memoria, passi protesi in avanti e occhi che guardano indietro.

Il progetto teatrale si inserisce nei programmi di intervento per l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati a Reggio Emilia. Il teatro assume una dimensione sociale, di cura della persona, oltre che di trasmissione della cultura. Giovani migranti dell’Africa sub sahariana si mettono alla prova sul palco di un teatro, sono portatori di saperi, storie e cultura di un mondo che inesorabilmente si avvicina verso l’Europa. Ci rivelano sguardi e prospettive che non possiamo conoscere se non incontrandoli, mettendoci in ascolto. Energia, slancio vitale, speranze di futuro che meritano di essere ri-conosciute, senza smorzarsi sopite nelle attese di un respingimento, di un diniego. Arrivati con niente portano tutto sé stessi, ci arricchiscono di nuove parole, suoni, idee, cuore, braccia e gambe. Ci aiutano a ricordare la dignità di ogni persona.


-FESTIVAL E RASSEGNE

Spettacolo finalista al XV Festival Teatrale di Resisitenza-Premio Museo Cervi-Teatro per la Memoria

Spettacolo ospite a Festival Aperto Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia
Rassegna Gemme e tempesta a Milano
Giornata Internazionale dei Migranti L’altro Teatro di Cadelbosco
Festival Conta e Cammina Macomer
Giornata mondiale contro il razzismo Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia

Festival I Teatri dell’Anima | Pordenone (PD)

Religion Today Film Festival – Trento


-VIDEO


-RECENSIONI

Questo è il mio nome ha una leggerezza e una positività intrinseche, la capacità di suggestionare e commuovere, e la sincerità dei suoi protagonisti a reggere un condensato di vita ritmato con i tempi precisi e rigorosi del teatro professionale

Simona Frigerio su Teatro Persinsala
Link alla recensione integrale http://teatro.persinsala.it/questo-e-il-mio-nome-avamposti-festival-2/43330

  …si sono vissuti momenti densi di emozione, un crescendo empatico tra palco e platea, un ascolto aperto e commosso, tutto esaurito.Il sindaco alla fine nei camerini a stringere la mano ai giovani dalla faccia spalancata per le emozioni.Un tempo fuori dal tempo.
Per questi odissei
Itaca forse è lontana
Ma il palcoscenico è tavola imbandita dai Feaci per poter lasciare impronte e raccontare la vita che ha scintillare di felicità e orrori indicibili dentro le onde del mare.
lo scatto finale è catturato da Nicolò Degl’Incerti Tocci che ha custodito la memoria del percorso nelle foto ieri esposte in teatro.

Le loro esperienze di vita sono pesanti, ma ognuno di loro nell’atto teatrale è leggero: il loro è un canto universale in grado di attraversare confini geografici e storici, giungendoci direttamente dalle nostre antiche radici (come ci ricorda Schmitt, Odisseo viene da Bagdad!). Il testo, firmato da Morini-Bonzani, indaga le ragioni profonde che hanno spinto gli artisti ad avvicinarsi inesorabilmente verso un’Europa che non li vuole portando con sé i saperi, le storie e la cultura del loro mondo.

E se le parole non sono in dizione, i movimenti tecnicamente imperfetti, i ritmi qua e là sgranati, ci si rende conto presto che si tratta di questioni marginali, accessorie: ciò che conta è la straordinaria forza d’impatto sullo spettatore, la contagiosa energia che scaturisce e si diffonde (e che troppo spesso è assente dai palchi istituzionali).
Il successo artistico di Questo è il mio nome, proprio come di Eresia della felicità, fanno riflettere sulle etichette sfuggenti di professionismo, e sulle finalità e le metodologie del fare teatro oggi: cosa serve oggi alla nostra società? E qual è un teatro che possiamo definire necessario, in buona salute? La vitalità e la dignità che provengono dal palco, non possono che suggerire la risposta.

di  Giulio Bellotto – Stratagemmi

“Il teatro che infrange le barriere, abbatte i confini: della diffidenza da parte del pubblico, e della paura per quanto riguarda i protagonisti. […] La loro tragedia non è raccontata, entra nello spettatore piano piano senza clamore. Ma fa trasalire.”

  Giulia Bassi – Gazzetta di Reggio

“Il progetto del TeatrO dell’Orsa sa di speranza, sa di bellezza, è pieno e vivo in una maniera incredibile. I ragazzi che sono saliti sul palco erano delle girandole di colori, di voci, di canzoni, di sogni e soprattutto ricordi.
“Questo è il mio nome” è un urlo, una presa di coscienza, un post it immenso nella memoria collettiva: noi siamo qui, ci vedete? I can see you, can you see me?
Per l’ennesima volta, il teatro si conferma essere un luogo di confronto, una possibilità, un appiglio in mezzo al mare, una mano tesa che cerca qualcuno da afferrare e da issare a bordo, un posto pieno di vita in cui, alla fine, ci si fonde. Non siamo più “noi” e “loro”, ma siamo semplicemente insieme per godere della musica, delle storie, della vita… I ragazzi hanno raccontato di quando sono nati, di quando hanno visto il mare per la prima volta; nei loro racconti c’è una poesia ed una bellezza che qui non ho mai trovato… Ma alla fine forse non c’è nemmeno un “qui” e un “lì”, perchè come ha ricordato la straordinaria Monica Morini, nella Carta dei cacciatori dei Mali del XII secolo già si trovava la frase “Ogni vita è una vita, ogni vita vale”.
Ricordiamocene. Ricordiamoci sempre di tutto e tutti.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              Festival AlbanoArte

La recensione di Simone Manfredini

TEATRO.IT informazione, cultura e spettacolo

http://www.teatro.it/spettacoli/a_ponchielli/questo_il_mio_nome_1263_37367

 Noi siamo qui, ci vedete?

Il teatro non ha controindicazioni; il teatro è un modo privilegiato per conoscere noi stessi, il mondo che ci circonda, gli altri, uno spazio dell’anima in cui fare i conti con i ricordi, le paure, le nostre e le altrui debolezze, un luogo di incontro e confronto dal quale sia l’attore sia lo spettatore non emergono mai esattamente come prima, il luogo bello della mutazione possibile.

Questo è il mio nome è uno spettacolo frutto di un progetto per l’accoglienza e l’inserimento di alcuni giovani richiedenti asilo e rifugiati all’interno del territorio del Comune di Reggio Emilia, ideato e portato avanti con pervicace passione da Monica Morini e Bernardino Bonzani che ne hanno curato anche la regia. Sul palco la prorompente energia vitale di Ogochukwu Aninye, Djbril Cheickna Dembélé, Ousmane Coulibaly, Ezekiel Ebhodaghe, Lamin Singhateh che, attraverso una serie di quadri apparentemente slegati tra loro e col semplice ausilio di pochi arredi scenici, ripropongono al pubblico, concretizzandoli in brevi episodi di vita, i propri sogni e le proprie speranze, tenacemente mantenuti vivi anche attraverso il deserto, il mare, i vari tipi di respingimento che essi hanno dovuto affrontare. Ogni sorta di patetismo è bandito da uno spettacolo che, nella sua levità vuole essere quasi un ponte gettato sul Mediterraneo, un ponte che invita a un dialogo sorridente e spontaneo fra le due sponde.

La vera protagonista delle pièce è e rimane la parola, una parola scarna ed essenziale, ma al contempo magica ed evocativa che si inserisce in quel filone dell’oralità che da sempre ha caratterizzato il bacino del mare nostrum e che accomuna gli aedi greci a quelle tradizioni non scritte che Amadou Hampâté Bâ chiama gli archivi letterari, storici e scientifici del’Africa. La parola è ciò che ci definisce, ciò che ci consente di comunicare con gli altri; la sua più alta incarnazione poi è quella che si concretizza nel nostro nome, un nome che i ragazzi alla fine dello spettacolo possono tranquillamente proclamare perché ormai si trovano in un luogo che li ha accolti, così come fece a sua volta Odisseo con i Feaci, quello stesso Odisseo che, di fronte alla violenza antiumana di Polifemo, aveva dichiarato di chiamarsi Nessuno.

‘Noi siamo qui, ci vedete?’ gridano gli attori sul palco, un grido che vuole sfondare il muro dell’invisibilità, in nome di quell’uguaglianza fra tutti gli esseri umani già proclamata all’interno dei valori etici elaborati da quell’humanitas che, dal Circolo degli Scipioni in poi, dovrebbe essere base essenziale del nostro essere occidentali, ma che, guarda caso, viene proclamata con forza anche all’interno di una tradizione pluricentenaria elaborata proprio in Mali. ‘Io ti vedo, tu mi vedi?’ ed ecco che ogni frontiera, ogni distinguo cadono nel dimenticatoio.

Quanto mai appropriata la collocazione dello spettacolo da parte del Teatro Ponchielli nelle vicinanze del 27 gennaio, giornata della memoria, una memoria che ha come scopo ultimo proprio quello di non ripetere gli orrori del passato, una memoria che ci impone di vedere e di non ignorare, una memoria che ci rammenta, come disse Primo Levi, che ‘l’angoscia di ciascuno è la nostra’.

La recensione di Pietro Poltronieri

LAB-Laboratorio Teatro e Critica

Partiamo dalle parole. Il lavoro della compagnia Teatro dell’Orsa è qualcosa di particolare, è un laboratorio che accoglie i migranti dopo la loro prima accoglienza dalle onde scottanti del Mediterraneo, che li accompagna nella loro formazione a partire dalla lingua italiana. “Partiamo con l’abitare le parole”, la prima casa è la lingua. «ma-ma-mare, ma-ma-mare» o “mani”, quelle calde della madre, quelle rugose del bracciante, quelle golose del pasticcere, sono le prime parole dette con euforia.

Perché lo spettacolo Questo è il mio nome non era nelle intenzioni degli organizzatori, ma forse scorreva già nell’ardore di una gioia africana dai denti brillanti. Si trattava prima di tutto di incontrarsi nello stesso luogo e darsi solidarietà, ma è stata una sorpresa continua: Monica Morini (con Bernardino Bonzani ha curato l’ideazione, i testi e la regia) ci racconta stupendosi ancora come ogni partecipante al laboratorio, ogni migrante sopravvissuto ai “barconi”, arrivando in questo luogo sconosciuto popolato di volti mai visti, davanti a tutti prende la parola e racconta, oppure canta. Lì si trovava già il germe di uno spettacolo – non è così che nasce il teatro in qualsiasi cultura, da un cerchio riunito intorno al fuoco sacro della curiosità di tutti? Era già lì, in quel calderone in cui non cuoceva niente, eppure doveva uscirne un tè, che tutti riunendosi in quel luogo avrebbero dovuto preparare – tu prendi la menta, tu prendi l’acqua, è finito lo zucchero! – il “ghetto” è questo, ci dicono, quando in un luogo ci si ritrova a fare il tè e mentre l’acqua bolle ognuno si racconta. Oppure si canta insieme, senza conoscere le parole, inventandosele al momento e costruendo su due piedi una canzone che prima non c’era. Lo spettacolo è nato così, come da una canzone che fino a un momento prima non c’era; i migranti sono stati chiamati a improvvisare, ma per loro non si trattava di questo. Nello spazio del laboratorio o in teatro sotto le luci Ezekiel, Lamin, Ousmane, D. Cheickna, Ogochukwu, non hanno imbarazzo, non sorridono di vergogna: sulle note di Ghetto (Akon) si spostano in scena ballando – quando un attore avrebbe semplicemente camminato –, richiedono reciproche esperienze con una curiosità inesauribile.

 

Foto Silvia Varrani

Il lavoro che precede l’allestimento è monumentale, e si avverte nel rapporto che i cinque intrattengono con le parole della lingua italiana. Si è partiti da una approfondita conversazione sulle parole dell’italiano che rappresentano la loro drammatica storia; tutte le sofferenze patite si stemperano con risate alla hakuna matata e la prima parola che rimbalza è “felicità”, la stessa che cercano fuggendo da Madre Africa, «gonfi» – per usare le parole di Ezekiel, il più giovane – «di messaggi, come donne incinte». Quella felicità spesso negata da chi ignora la vitalità e l’allegria che si celano nell’animo africano, da chi non è nato quando «il giorno e la notte facevano l’amore» (così si è espresso con innocenza Lamin durante il laboratorio). Non solo la lingua, anche il linguaggio del corpo è una leva per estrarre l’autentico dalla materia del vissuto. E il lavoro sul corpo svela la sua importanza, la sua urgenza, in atti così ricchi di vitalità, che sono eloquenti nel silenzio, nel movimento, nel canto: la mano protesa al pubblico durante la scena della corsa è quella che era stata abbandonata dalla nave al porto, ma anche quella che aveva cercato di afferrare invano l’amico caduto dalla jeep.
Il contenitore bruto dello spettacolo è superato, abbandonato: i corpi e le voci dei suoi protagonisti eccedono lo spazio della scena e ci fanno tornare a un tempo in cui non era così difficile sentirsi fratelli.

Video – http://www.smtvsanmarino.sm/video/cultura/scena-questo-mio-nome-testimonianze-vive-sulle-storie-migranti-17-01-2017

PDF- Scaricabile | Gagarin Magazine 

 articolo 22 settembre  Cattura 2albanoquesto-e-bolzanoScianca

http://www.smtvsanmarino.sm/video/cultura/scena-questo-mio-nome-testimonianze-vive-sulle-storie-migranti-17-01-2017


-Libera Repubblica dello Spettatore
i commenti degli spettatori raccolti su Facebook

E’ un manifesto di convivenza, sono d’accordo di estenderlo ai ragazzi delle scuole, dalle medie alle superiori. Mi sono commossa.                 Pina Tromellini scrittrice

 

[..] ho pianto e ho pianto contento perché ho capito qualcosa. […] le sensazioni che ho provato ieri sera vorrei lasciarle intatte per un po’, per un tempo breve o lungo, non saprei: un tempo che serva, non ho dubbi. Grazie

Maurizio Paterlini Assessore alla Cultura e ai Servizi Sociali di Castelnuovo Sotto

 

Un piccolo miracolo davvero si è avverato…stasera sul palcoscenico ho visto persone che, ricordando momenti felici, erano felici per davvero.  […]  ho imparato che la mia gentilezza e il mio saluto non sono sufficienti, ho imparato che incontrando qualche nuovo viso è giusto pensarlo come su quel palco, una possibilità di mostrarsi e di essere visto per davvero.                                                                       Ada Francesconi

 

A Marcello ( 10 anni) é piaciuto molto e fra le tante cose mi ha detto ridendo: sai che i più “colorati” siamo noi?                                                                 Barbara Quinti

 

La verità dei loro sguardi, la forza delle loro parole, la fierezza dei loro gesti colpisce davvero l’anima . Mio figlio di 12 anni: “ nonostante tutto quello che hanno passato sanno essere sempre fighi” . Complimenti a tutti

        Erika Colaci

“Questo è il mio nome” è uno spettacolo bellissimo. Ci hanno raccontato la loro Odissea senza avere un’Itaca a cui rientrare. E l’hanno fatto a Reggio Emilia.

Luca Vecchi – Sindaco di Reggio Emilia


“Questo è il mio nome”: il viaggio dei rifugiati a teatro


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